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05.10.2016 14:12 Età: 7 yrs
Categoria: Questioni di Lingua Sarda
Autore: Marinella Lorinczi

Globalizzazione-scomparsa, identità-arcaicità delle lingue

Marinella Lorinczi - Globalizzazione-scomparsa, identità-arcaicità delle lingue. Apparso in in AA.VV., Sardegna: seminario sull'identità, Cagliari, CUEC, 2007, pp.107-11; versione riveduta.


Marinella Lorinczi
Globalizzazione-scomparsa, identità-arcaicità delle lingue.

Apparso in in AA.VV., Sardegna: seminario sull'identità, Cagliari, CUEC, 2007, pp.107-11; versione riveduta.

L'ultima esplosione o, meno enfaticamente, gli ultimi sviluppi della "questione della lingua sarda", ai quali assistiamo e partecipiamo da un quinquennio all'incirca, coincidono con un periodo speciale e poco felice dell'assetto sociolinguistico mondiale, poco felice e problematico dalla prospettiva delle cosiddette lingue modimes ("les MOins DIffusées et les Moins EnseignéeS"); mentre costituiscono la maggioranza dell'inventario linguistico mondiale, vale a dire il 98% delle lingue censite, esse sono parlate soltanto dal 6% della popolazione mondiale.

Da Hagège (2000) a Weinrich (2005), da Calvet (2002) fino al recentissimo Boyer (2005-2006), alcune delle tantissime letture raccomandabili in questa circostanza, la letteratura sulla glottodiversità europea e mondiale è percorsa dall'allarme lingua.

Per una maggiore precisione tale letteratura tratta sì del problema "allarme lingua", senza però necessariamente ammettere, sempre, che il pericolo di regressione o di scomparsa incombe su tutte le lingue, allo stesso modo, indiscriminatamente.
Sono le lingue più deboli a trovarsi in una situazione di pericolo, sebbene non sia sempre facile misurare, quantificare e descrivere la 'debolezza' di una lingua. Tuttavia, per la ridotta consistenza numerica dei loro parlanti, numerose lingue modimes, tra cui il sardo, non possono che essere deboli e quindi a rischio.

In che consiste, inoltre, la debolezza del sardo? Per esempio nel fatto, assai più rilevante nel processo di declino, che esso è rilessicalizzato massicciamente con materiale proveniente dall'italiano, nei fondamentali settori del sostantivo e del verbo; questo processo garantisce ancora, paradossalmente, una buona vitalità comunicativa in quanto produce una variante aggiornata, moderna del sardo (approfondimenti in L?rinczi 1999 b); la vitalità è funzionale ma non strutturale in quanto le innovazioni sono allogene (diversamente da quanto accade per l'islandese, lingua modime ma non a rischio).

La lingua più debole (il sardo) si corrode e si svuota, per così dire, dall'interno, mentre la lingua più forte (l'italiano) pian piano l'avvicina e l'assimila a sé nel corso di un processo di omologazione lessicale e derivativa, vale a dire sul piano delle parole e della formazione delle nuove parole, degli importantissimi neologismi che aggiornano culturalmente una lingua (è quanto potrebbe accadere anche al maltese, anche esso lingua modime; v.oltre).

Altrove, invece, le tendenze alla cosiddetta regionalizzazione degli stati potrebbero alterare ed invertire i rapporti di forza tradizionali tra le varietà linguistiche storiche interne allo stato o alla confederazione: le varietà 'dialettali' deboli potrebbero irrobustirsi ai danni della lingua forte sovraregionale. E' quanto si desume dallo slogan pubblicitario regionale ricordato da Weinrich (2005, 28), che gioca sui significati di können "potere, essere in grado, sapere, essere capaci": Wir können alles, außer Hochdeutsch "noialtri sappiamo tutto eccetto il tedesco standard" è una delle letture possibili.

Anche la prassi linguistica delle istituzioni dell'Unione Europea giustifica in una certa misura l'allarme generalizzato in Europa. Come dettagliatamente illustra Ortolani (2001, cap.6), le lingue di lavoro possono ridursi fino a tre, due, una (in quest'ultimo caso all'inglese o più raramente al francese), a seconda del tipo di riunione, e dunque il principio dell'eguaglianza delle lingue degli stati membri, sancito da norme giuridiche, non viene sempre e dovunque osservato. Quest'ultimo microcosmo è un modello di quello che succede o può succedere a livello planetario. Ma torniamo alle comunità storiche di maggiore estensione cronologica.

Alcuni studiosi, ad esempio nel 1994 Robert Lafont, occitanista impegnato, e più recentemente Daniel Nettle e Suzanne Romaine in un libro di successo (2000/2003), hanno ribadito (senza invocare nessun ricorso, a quanto pare, a teorie del materialismo storico) che in una comunità/società il passaggio da una lingua all'altra - passaggio nel senso di sostituzione, declino e scomparsa/morte di una lingua a vantaggio di un'altra - è una questione sociale ancor prima che strettamente linguistica. Il "prima" va inteso, a sua volta, sia cronologicamente che gerarchicamente. La saldezza e la vitalità sociali della comunità (in ambito politico, economico, culturale, ambiti presi separatamente o insieme), piccola o grande che sia tale comunità, garantiscono un ambiente favorevole alla preservazione e allo sviluppo sociale dell'idioma autoctono (locale, natio).

Questi principi vanno sottolineati in quanto normalmente non fanno parte del senso comune o della filosofia spontanea, la quale invece, da due secoli a questa parte, assegna al fattore lingua un livello gerarchico alto e/o autonomo e/o determinante. Perciò nella situazione del graduale abbandono di una lingua quale il sardo ad esempio (secondo il Red Book on Endangered Languages dell'UNESCO, il sardo è in pericolo di estinzione), l'interrogativo principale riguarda le cause extralinguistiche dell'indebolimento funzionale e strutturale di quella lingua e non tanto l'agonia in sé della lingua. Tra gli esempi classici e privilegiati che vengono forniti in queste occasioni si trovano le minacciate lingue amerindiane amazzoniche o le moribonde lingue indigene dell'Australia.

Per quanto riguarda il campo degli interventi riparatori, cui corrisponde come disciplina di studio la cosiddetta ecologia linguistica (v. Haugen 1972; Ecologia linguistica 2003), cito per comodità a piene mani da Nettle - Romaine (2000/2003) attraverso Boyer (2005-2006 cap. 2):
L’un des principes de base de l’écologie linguistique rejoint le f ondement même de toute préoccuppation écologiste: «la préservation d’une langue dans son sens le plus large implique le maintien du groupe qui la parle» (Ibid: 192). Et cette préservation passe à n’en pas douter par des «stratégies de haut en bas» qui visent à intégrer «la préservation des langues dans le mouvement activiste général en f aveur de l’environnement» et à «mettre en place des politiques linguistiques à un niveau local, régional et international qui f assent partie d’une planification politique et de gestion générale des ressources» (Ibid: 213) mais elle passe également par des «stratégies de bas en haut» car «accorder trop d’attention aux politiques of?cielles peut s'avérer contre-productif en l’absence d’autres activités aux niveaux inf érieurs» (Ibid: 191). Ainsi «la préservation d’une langue doit d’abord commencer dans la communauté elle-même, grâce à des eff orts volontaires, et être financée de bas en haut par les ressources de la communauté» (Ibid: 202). On peut songer ici aux écoles associatives bilingues pratiquant l’immersion linguistique (exemple: les Calandretas en domaine occitan) créées par des militants de langues dominées.

Dinanzi allo studio o alla necessità dello studio dei condizionamenti extralinguistici a cui un idioma è sottoposto, molti linguisti arricciano però il naso. Secondo il loro punto di vista il 'vero' linguista sarebbe quello che fa ricerca intralinguistica, il tecnico del linguaggio. La linguistica cosiddetta esterna confina infatti, e s'interseca, con la storiografia, con la sociologia e la politica, con lo studio delle ideologie, con le discipline economiche-gestionali ecc., ossia con ambiti diversamente tecnicizzati (v. la sociologia o gli studi economici) o poco tecnicizzati in quanto si occupano di idee e di atteggiamenti.

I linguisti impegnati, militanti nei processi di emancipazione linguistica, provengono per lo più da discipline di tipo sociolinguistico. Dal punto di vista squisitamente intralinguistico, che è sicuramente il più idoneo per la descrizione e l'analisi della lingua in sé (anche nella sua fase di disgregazione), è secondario, marginale o addirittura indifferente fare prognosi o indicare terapie rispetto ad un assetto linguistico instabile. Anzi, l'assetto instabile di una lingua è un oggetto di studio interessante, quanto in biologia un virus letale.

D'altronde, uno dei paradossi nei processi moderni di valorizzazione/revitalizzazione di una lingua consiste nel fatto che la sorte delle lingue non la decidono i linguisti (categoria professionale che ha un'esistenza di pochi secoli), ma, come sempre, gruppi di individui variamente interessati non tanto allo studio quanto alla promozione. Lo studio, la ricerca, a questo punto diventano sottoambiti utili, forse obbligatori, ma ancillari. E probabilmente il linguista di professione si rende conto di essere o di poter diventare uno strumento, e deve decidere se accettare o meno questo ruolo.

Il fatto, ad esempio, che uno studioso si dedichi a studi morfologici o fonetici o dialettologici o tipologici non dipende necessariamente da previ e consapevoli obiettivi di promozione o valorizzazione, ma tali studi ne possono diventare un mezzo. Non è nemmeno corretto esigere dal linguista, in quanto linguista, l'obbligatoria partecipazione ai processi di salvaguardia linguistica. Egli agirà in tal senso, se agirà, in quanto membro della comunità ovvero in quanto persona/cittadino che condivide certi principi identitari, linguistici e non, che esaltino una certa comunità e la preservino dalla disgregazione. Intervengono a questo punto considerazioni morali o di carattere giuridico.

Il linguista, come il giurista, potrà e dovrà ribadire il diritto all'autoaffermazione linguistica della comunità e dei suoi singoli membri, nonché il dovere delle istituzioni, là dove è il caso, di garantire la tutela delle lingue più deboli. La complessa materia sul ruolo del linguista di fronte alle lingue "en danger/endangered" è elaborata in maniera eccellente in Launey (2000), studioso delle lingue indigene americane, e anche presso altri autori.

Pertanto credo che in Sardegna, nel caso delle commissioni regionali istituite per l'elaborazione o l'individuazione di un codice comune d'uso ufficiale (scritto, in primo luogo), sarebbe stato normale verificare anzitutto, sondare per lo meno, se i commissari condividevano tale obiettivo, se sì perché, e se no perché no.
Non è infatti una tappa obbligatoria nell'esistenza e nella storia di una lingua l'elaborazione consapevole di un sistema o di uno standard sovradialettale scritto, o di una norma comune ossia koinè grafica (per quelli orali e/o spontanei il discorso è diverso), ma farlo può rivestire almeno una funzione simbolica, una funzione stendardo.

Se per un proficuo dibattito intorno al concetto di koinè, visto anche in relazione a una serie di lingue antiche e moderne, possiamo rileggere il volume Koinè (1990), è altrettanto utile segnalare, come oggetto di attenta lettura, un articolo di nessuna diffusione in Italia (Kaminker-Baggioni 1980), in cui viene discussa la tesi (già gramsciana) secondo cui la Norma linguistica esplicitata, ad esempio la grammatica normativa scolastica, consiste nell'imposizione e nella dominazione di una prassi linguistica ai danni di altre: per questo la Norma può diventare, in determinate circostanze, una sorta di gendarme o di carabiniere linguistico, uno strumento, comunque, del potere, che esercita costrizione e controllo, che censura e sanziona.

Su queste ultime implicazioni si dovrebbe riflettere attentamente, qui in Sardegna, nel momento attuale, in relazione alla normativizzazione della lingua sarda (e pure in relazione alla promozione con fondi pubblici di un progetto quale "Sardinia speaks English", perché anche in quest'ultimo caso si tratta di sostenere con forza, anche con la forza del danaro, un certo tipo di prassi linguistica a spese di altre possibili). Tradotto in soldoni: chi è che ci guadagna dall'imposizione di una certa norma linguistica e chi è che ci perde?

Un'operazione di politica linguistica quale l'opzione normativa per una lingua a status sociale incerto, richiede anche la consapevolezza circa il fatto che il tasso di coinvolgimento soggettivo nelle rappresentazioni identitarie e, di conseguenza, nei processi emancipativi è variabile ed è variamente motivato. Per esempio nei Paesi Baschi (attualmente, ma sotto il franchismo non era così) chi parla basco (euskera) è ovviamente basco, mentre invece non tutti i Baschi, coloro che si identificano come Baschi, parlano il basco (Joly 2004, cap. Langues et représentations identitaires auj ourd’hui).

Ciò fa capire che si rivendica, giustamente a mio avviso, il diritto a manifestare la cosiddetta doppia (o multipla) identità etnico-linguistica, non prevista dalle teorie classiche, e respinta, come sappiamo, e anzi stigmatizzata dalle ideologie nazionaliste-linguistiche radicali.

A livello di comunità, la non uniformità degli atteggiamenti linguistici diventa evidentissima quando si ha la fortuna di disporre, come per il catalano, di situazioni a confronto su un territorio discontinuo ma relativamente limitato e quindi ben monitorabile: per quanto riguarda l'immedesimazione nel catalano come fattore identitario, i campioni indagati per Catalogna, Andorra, Isole Baleari e Paese Valenzano, mostrano un attaccamento decrescente secondo l'ordine indicato (Querol 2005).

Si delinea così una catena circolare di fenomeni paralinguistici, tipici dell'era moderna e contemporanea:
1. una lingua in via di scomparsa, o anche solo una lingua debole, può o deve essere tutelata, valorizzata, soccorsa insomma attraverso interventi speciali e mirati.
2. per ragioni di valorizzazione o, più neutralmente, per ragioni di de?nizione, di circoscrizione, della lingua e della comunità che la parla come idioma autoctono, si elaborano teorie dette nazionaliste.
3. tali teorie si basano sul concetto di identità, entro il quale alla lingua viene assegnato un ruolo preminente o determinante (cfr. lo slogan "Cun una limba est prus naturale a èssere pòpulu").
Tuttavia, può accadere che nella lingua da tutelare non s'identifichino tutti i membri della rispettiva comunità ma, al limite, soltanto certe élites, e che, comunque, il tasso di immedesimazione sia variabile.

Vado oltre la definizione o la discussione, persino elementare, del concetto di "identità culturale e linguistica". Nelle prime due frasi del saggio di Gellner, che si trova in Identità culturali (1989), "sentimento etnico" e "nazionalismo" sono trattati sinonimicamente, ma sottintendono (visto il titolo del volume di cui fa parte il saggio) il sentirsi appartenere ad una entità sociale ben delimitabile dalle altre nel tempo, nello spazio, nelle vicende storico-culturali condivise, nel nome, nella lingua, ecc. ecc.

Tale esemplificazione bibliografica è casuale, considerata la vastità della bibliografia su questi argomenti. Per conto mio userei un termine ibrido intermedio, cioè "sentimento nazionale", che recepisco come meno elaborato, meno speculativo rispetto a "nazionalismo", il quale sottende invece teorizzazioni, costrutti. Intendo dire che a mio modo di vedere anche il "nazionalismo" è graduabile/scalare e a densità variabile. Per le proprie manifestazioni verbali e metadiscorsive sia il sentimento etnico che il nazionalismo fanno di solito ricorso agli idiomi autoctoni e perciò identitari/identificativi. Nel linguaggio comune "identità", per quanto in origine termine dotto, significa "essere quello e non altro". Definizione in positivo e in negativo, quindi, ma che in fondo è tautologica: A = A perché A ? B, C, ..., X.

Vediamo ora un caso concreto, il sardo, appunto. Che cosa rende il sardo 'irripetibile', diverso dagli altri e uguale a se stesso? Harald Weinrich (2005, 27-28) ha giustamente evidenziato "la nota triade di valori quale si trova frequentemente applicata alla lingua sarda: purezza, arcaicità e correttezza. [...] l'arcaicità [... è stata] misurata a partire dai tempi di Max Leopold Wagner in termini di affinità con il latino. [...]

Nei suoi scritti e in non poche pubblicazioni precedenti o seguenti di altri autori, l'arcaicità è divenuta quasi un titolo nobiliare del sardo. D'accordo a livello locale, regionale e nazionale - ma chi rispetta davvero a livello europeo un tale valore! Lì si ricorda innanzitutto il fatto che [...] la lingua [romanza] meno arcaica [...] è proprio il francese il quale, nella sua brillante storia, non ha mai sofferto della sua non arcaicità." Rispetto, invece, al concetto di "purezza", cioè di incontaminazione di una lingua da parte di altre, Weinrich cita il controesempio dell'inglese, "lingua mista al massimo", la cui mescolanza costitutiva sarebbe "una delle condizioni del [suo] successo mondiale" quale lingua "franca" (ma non presso Cinesi o Giapponesi, i quali non ne possono intuire e valutare il carattere ibrido abbastanza evidente anche per l'europeo di cultura media).

Sulla falsariga di questa presentazione inevitabilmente sintetica di come nella storiografia linguistica sarda si siano sviluppati i due concetti di "arcaicità" e di "purezza", posso indicare, in base alle mie ricerche, lo spessore cronologico, di cinque secoli all'incirca, durante i quali lentamente e con grande coerenza, in un continuo confronto con il latino e con alcune poche lingue e letterature romanze, tali costrutti sono stati distillati ad arte (Lorinczi 2000).

Il periodo decisivo è il secolo XIX, né poteva essere diversamente. A mio modo di vedere si tratta di elaborazioni metalinguistiche compensatorie, consolatorie rispetto a complesse vicende storiche che per secoli hanno morti?cato le potenzialità economiche ed umane e perciò anche linguistiche dell'isola. Sono tentativi di brillare in qualche modo di luce riflessa proveniente dall'indiscusso prestigio internazionale e scolastico della lingua latina. Arcaicità effettiva (ma quale lingua non ha tratti arcaici, antichi? persino la foneticamente più avanzata lingua romanza, il francese, ha aspetti conservatori nel consonantismo) o arcaicità presunta (infatti, ultimamente viene contestato il fatto che il vocalismo sardo possa essere considerato arcaico: Krefeld 2004; ma già nel 1949 Haudricourt-Juilland avevano avanzato quest'idea, passata del tutto inosservata, a quanto pare *); tuttavia qualche studioso sardo, nel 2005, insiste ancora, stancamente e per inerzia, per rassegnazione forse, sul carattere identitario arcaico del sardo.

Le cause solitamente addotte? La marginalità, l'isolamento, l'insularità. Di questo sicuramente vorrà discorrere qualcun altro. Un minimo contributo all'eventuale discussione lo posso portare io. Come ha dimostrato dettagliatamente Vàrvaro per la Lucania (1983), la formazione di un'area linguisticamente arcaica può avvenire anche in assenza di barriere geografiche importanti (mari, monti, fiumi ecc.) o in presenza di un'adeguata rete viaria di comunicazione con le zone adiacenti, da osservare ed indagare nel suo sviluppo plurisecolare (non conta, cioè, la marginalizzazione determinatasi negli ultimi, mettiamo, 100-150 anni).

Nel caso esaminato rimane però l'interrogativo di fondo se, alla luce delle osservazioni di Krefeld e di altri, si possa oggi continuare a parlare di un'area arcaica calabro-lucana anziché di una zona dove si intrecciano e si scompongono su piccoli tasselli variegate tendenze romanze (il settore linguistico in questione è quello del vocalismo tonico, v. nella celeberrima Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs, il primo capitolo della Fonetica).

Molti studiosi della lingua sarda, anch'essi probabilmente per il vezzo di voler sentirsi linguisti 'interni', sorvolano con leggerezza sul fatto che parallelamente a quello che avviene nella storiografia del sardo, nella storiografia sociale isolana si sviluppa, già dal XVI secolo, un ?lone tendente a dimostrare 1. "la noblesse de l'origine des Sardes", 2. l'esistenza, nell'area montuosa della Barbagia, di un "heureux prototype d'une 'sardité' intacte et non corrompue, capable de puiser, dans son archaïsme même, les énergies pour s'opposer à la pénétration étrangère." (Marrocu 1989,94,95; sulla storia del luogo comune, fondamentalmente errato, circa una Sardegna montuosa, semplicisticamente omogeneamente ed eroicamente montuosa, v. inoltre Zedda Macciò 1999).

Ci ricordano, queste constatazioni, qualcosa di simile alle valutazioni del sardo in termini di "arcaismo/conservatività" e di "purezza"? Sicuramente sì, a meno di non voler essere ciechi e sordi. Si tratta, quindi, di stereotipi, di idées figées, che attraversano i secoli e gli ambiti disciplinari, costrutti identici a se stessi, sui quali si è insistito e si continua ad insistere con accanimento e monotonia, che non hanno inciso e non incidono sulla funzionalità del sardo, che non hanno (avuto) ricadute pratiche, non hanno cioè migliorato la prassi linguistica, tanto meno tra i secoli XIX-XX quando sono stati maggiormente dispiegati (erano, infatti, intervenuti come freno al sardo e come promotore dell'italiano, il servizio militare, la scuola, la radio, la TV, la migrazione).

Mi piace citare, a questo punto, una de?nizione di "identità dinamica" formulata da una professoressa universitaria di ?loso?a e poetessa della Costa d'Avorio, Tanella Boni, durante un'intervista sulla globalizzazione, sull'identità africana, sul ruolo fondamentale della cultura e dell'istruzione per contrastare la disgregazione identitaria: "l'identité n'est pas quelque chose de lié au passé, aux appartenances et aux provenances. C'est quelque chose qui (http://www.arts.uwa.edu.au/AFLIT/AMINABoni2004.html).

Di per sé, la coltivazione dell'arcaicità, la coltivazione effettiva ed attiva, può peraltro dare frutti eccellenti e costituire un valore. Un'altra isola, in un altro angolo d'Europa, presenta e incarna un caso veramente clamoroso e unico. Questo caso straordinario di coltivazione consapevole e paradossalmente vivace, creativa, dell'arcaicità linguistica, quasi del tutto autoreferenziale, è l'islandese. Rimando alla voce Islande (http://www.tlfq.ulaval.ca/axl/europe/islande.htm) dell'eccellente sito L'aménagement linguistique dans le monde del franco-canadese Jacques Leclerc, dalla quale però cito almeno questo: Contre toute attente, la langue islandaise s’est conservée intacte [nel periodo di dominazione danese compreso tra il 1397 e il 1814] et n’a pratiquement subi aucune in?uence danoise, l’isolement géographique et une tradition littéraire fortement ancrée ont sans doute été les garants de la «pureté» de sa f orme, tout en étant assortie d’une grande créativité sur le plan lexical. Cependant, il s’agit là de la langue écrite et de la grammaire, car en ce qui a trait à la prononciation le système a considérablement changé depuis le temps du nordique commun.

Le isole medie e piccole, come si sa, possono essere degli straordinari laboratori sociali spontanei. Vorrei concludere con una terza situazione linguistica insulare, quella del maltese, da affiancare all'esempio forte (l'inglese, lingua mista) fatto da Weinrich, ma che per le dimensioni ridotte dell'isola di Malta e per la sua collocazione geogra?ca, fornisce un da affiancare all'esempio forte (l'inglese, lingua mista) fatto da Weinrich, ma che per le dimensioni ridotte dell'isola di Malta e per la sua collocazione geografica, fornisce un esempio più suggestivo e più utile, più adatto alla situazione della Sardegna e del sardo.

Da premettere che il maltese e i Maltesi si sono trovati, hanno avuto il privilegio di trovarsi durante la loro storia, nel punto di sovrapposizione di tre lingue prestigiose: arabo, italiano, inglese. Qualche dato fondamentale: a livello di stato, maltese e inglese sono coufficiali, ma il maltese è lingua prima del 95% della popolazione ed è suf?cientemente vitale. Ma la pressione dell'inglese è aumentata negli ultimi decenni, il che nel 1994 faceva presagire la necessità di misure di politica linguistica, da contrapporre consapevolmente alla prevedibile lenta marginalizzazione del maltese (Frendo - Friggieri 1994, 29).

A distanza di quasi un decennio, nel 2003, è stata in effetti varata la Legge sulla lingua maltese, la quale prevede la creazione di un Consiglio nazionale della lingua (Leclerc, s.v. Maltais/Malte). Parlanti una varietà di arabo molto speciale, i Maltesi scrivono con lettere latine e non sono musulmani, sono cattolici. Non stupisce perciò che presso i Maltesi colti, come espresso da intellettuali di rilievo, il sentimento d'identità sia recepito e coltivato all'insegna della mescolanza, pregiata quanto la lega delle lame di Toledo, quindi della non purezza, linguistica ed etnica insieme.

Già nel Settecento i visitatori stranieri colti notavano "the multi-cultural Europeanity of Malta" (Frendo - Friggieri 1994, 4). Questo dato fondamentale è perciò diventato ricorrente nei discorsi sull'identità maltese. Così si è espresso nel 2000 il penultimo presidente dello stato, il prof. Guido de Marco (http://www.mfa.gr/english/the_ministry/historical_archive/malta.html#3): l'identità maltese "reflects a complex melange of traditions, language and culture, with which our people have come into contact over the years." Ribadisce nel 2004 Immanuel Mifsud, scrittore di lingua maltese (http://immanuelmifsud.com/alkhaleej.html): that is the Maltese identity: a blend of components, sometimes contrasting components which is perhaps mostly evident in our language. [...] So basically that is Malta: a blend in many respects: a meeting point of Islam and Christianity; of Europe and the Arab world ; of European influence and Arab culture; with a long history of non-Mediterranean colonisation by Britain. All this has contributed to the very complex Maltese identity. Obviously this has also aff ected our literature.

Insistere dunque sia sull'arcaicità/conservativismo/purismo, sia sulle terapie di salvaguardia (si parla anche per le lingue modimes di accanimento terapeutico) può portare a una sorta di musei?cazione della lingua (anche l'islandese è museificato a modo suo, ma il suo status culturale e la consapevolezza di questo status presso i parlanti sono molto elevati). Il giurista è molto schietto al riguardo, quando si riferisce alle lingue piccole e deboli (Ortolani 2001):
La tutela delle lingue minori invece si concreta quasi sempre in dichiarazioni di buona volontà, spesso insufficienti a raggiungere gli scopi che si prefiggono, ma che comunque servono a mitigare le istanze di protesta, attraverso distribuzione di denaro alle comunità e iniziative culturali che contribuiscono alla museificazione della cultura minore.

Anche da questo potremmo, però, trarre qualche vantaggio. Parlo da linguista. Interno, questa volta. Come può essere 'musei?cato' positivamente e creativamente il sardo, a mio modo di vedere? Rispolverando, anzitutto, un progetto di atlante linguistico parlante, ideato da Michel Contini, studioso del sardo che tutti conosciamo. Il progetto era stato presentato alla Regione anni fa insieme con il collega Giulio Paulis, ma in una maniera inspiegabile e sostanzialmente scortese, non ha avuto nessun riscontro. Si trattava di un progetto moderno, i cui risultati sarebbero andati in rete gratuitamente e che era garantito da un supporto professionale e tecnico eccellente, a costi minimi. Perché non è andato avanti? Sarebbe cui risultati sarebbero andati in rete gratuitamente e che era garantito da un supporto professionale e tecnico eccellente, a costi minimi. Perché non è andato avanti? Sarebbe possibile rilanciarlo, sotto la guida di chi lo ha elaborato? Rivolgo la domanda a chi potrebbe intervenire a suo favore.

Un progetto del genere, scientificamente impeccabile, potrebbe generare a catena, oltre all'atlante stesso a libero accesso, l'istituzione di una serie di strutture scientifiche senza le quali è inconcepibile lo studio di un idioma quale il sardo, a maggior ragione in un periodo in cui si dà tanto spazio, nella ricerca fonetica e non, allo studio del parlato (cfr. i vari archivi nazionali del parlato spontaneo e semispontaneo): un laboratorio fonetico e, ?nalmente, un centro di dialettologia degno di questo nome.

Dalla realizzazione di tale progetto potrebbero però anche scaturire delle applicazioni molto interessanti, che mi sono state suggerite da discorsi degli amministratori della bella località turistica di Sappada/Plodn/Bladen (provincia di Belluno), i quali tendevano a considerare il dialetto tedesco locale una risorsa turistica da potenziare e, quindi, in termini di politica linguistica, da revitalizzare con la massima urgenza, da un anno all'altro. Immagino perciò dei musei o delle mostre di cose sarde, dove il visitatore è immerso acusticamente in un suggestivo mormorio in sardo, simile a quello gaelico che accompagnava Synge durante i suoi soggiorni di studio nelle isole Aran; sottofondo linguistico sempre diverso a seconda delle località, immagine, rappresentazione fedele dell'ancora ricca glottodiversità della Sardegna. Diversità che non deve essere vista in contrapposizione con la possibilità di sviluppo o di creazione di koiné, colta e moderna o, anche, colte e moderne.

L'attuale situazione linguistica mondiale o globale è di acerrima concorrenza anche economica (Lo"rinczi 1999 a, Calvet 2002, Grin 2005) tra le lingue, a tutti i livelli, di cui quello scolastico è paradossalmente il più pericoloso, perché la scuola può promuovere consapevolmente e uf?cialmente - sotto forma di politica educativa - l'oligolinguismo: cfr. il progetto regionale "Sardinia speaks English" (altri aspetti nel rapporto Grin 2005 o in Engl. u. Romanisch 2005). Perciò soltanto l'esistenza e l'USO effettivo di varietà prestigiose possono garantire la sopravvivenza delle lingue modimes; al ?ne di poter contrastare, SE le intenzioni della comunità sono dirette in tal senso, ciò che esprime quest'icastico convincimento dell'ivoriana Tanella Boni (e certamente di tantissimi altri): ci sono i "mondialisateurs" e ci sono i "mondialisés".*

 Poiché il lavoro dei due studiosi francesi oggi circola poco, cito in traduzione il passo che interessa (p. 42), il quale avrebbe meritato una tempestiva e ampia divulgazione, nonché una attenta considerazione: la nostra teoria sulla genesi dei sistemi vocalici romanzi suggerisce [...] che la concezione comune che oppone il sardo, quale idioma romanzo più conservatore, al franciano [= francese della zona di Parigi], quale il più innovatore, dovrebbe essere rovesciata su un punto fondamentale.

Tali caratterizzazioni sono valide soltanto nella misura in cui la scomparsa precoce della quantità ha consolidato nel romanzo insulare uno stadio più antico del vocalismo latino volgare, mentre la sua scomparsa tarda [cioè, la scomparsa tarda dell'opposizione di quantità] ha consolidato nel romanzo occidentale uno stadio più recente. Ma dal punto di vista evolutivo è al contrario. Infatti è piuttosto il franciano, e ancor di più il franco-provenzale, che dovrebbero essere caratterizzati come idiomi più conservatori, poiché hanno conservato più a lungo la quantità vocalica, mentre il sardo appare come il più innovatore, in quanto è stato il primo ad abbandonare la quantità.

la nostra teoria sulla genesi dei sistemi vocalici romanzi suggerisce [...] che la concezione comune che oppone il sardo, quale idioma romanzo più conservatore, al franciano [= francese della zona di Parigi], quale il più innovatore, dovrebbe essere rovesciata su un punto fondamentale. Tali caratterizzazioni sono valide soltanto nella misura in cui la scomparsa precoce della quantità ha consolidato nel romanzo insulare uno stadio più antico del vocalismo latino volgare, mentre la sua scomparsa tarda [cioè, la scomparsa tarda dell'opposizione di quantità] ha consolidato nel romanzo occidentale uno stadio più recente. Ma dal punto di vista evolutivo è al contrario. Inf atti è piuttosto il f ranciano, e ancor di più il franco-provenzale, che dovrebbero essere caratterizzati come idiomi più conservatori, poiché hanno conservato più a lungo la quantità vocalica, mentre il sardo appare come il più innovatore, in quanto è stato il primo ad abbandonare la quantità.

Marinella Lorinczi

Fonte: unica.it/mlorinczi


Riferimenti e approfondimenti:
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