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27.02.2019 21:07 Età: 5 yrs
Categoria: Primopiano, Arte & Fotografia, Società  e Costume

Casteddu e'susu: la periferia in pieno centro

In un quartiere storico di Cagliari, vicino alle mura, c’è uno studio fotografico “resistente”. Che punta l’obiettivo sulle trasformazioni sociali, sulle ingiustizie e sulle malefatte nella città e nell’isola. Un itinerario di percorsi visivi “messo a fuoco” nel pensiero e nell’obiettivo (fotografico) del progetto S’Umbra. Parliamo di tradizione (fotografica) che si fa racconto, anche sonoro, resistente e libertario.


La periferia in pieno centro

A colloquio con una delle fondatrici.
“Bisogna essere molto forti per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune (...) se tocca camminare per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera bisogna saperlo fare senza accorgersene (...) non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per le strade povere dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.”

L’incipit pasoliniano, de La solitudine, è riaffiorato nelle mie raminghe giornate cagliaritane, vagando per le vie di Castello, il quartiere storico dove vivo. È il luogo ideale per perdersi, per camminare senza fine, senza meta, che la meta è il cammino stesso, gravido di silenzi, incontri, di vite e storie inaspettate dietro l’angolo. È il luogo dove attardarsi nell’umanità di chi lo vive, negli sguardi e negli anfratti artigiani e pensanti di randagi, nomadi e stanziali, che vivono un sano isolamento “dall’impero”.

Dunque se sei fratello dei cani, non puoi non arrivare in vicolo S. Giuseppe e annusarne l’odore di casa, trovarti tra piante, divani, animali domestici e umani “addomesticati”, pareti-bacheca che traspirano “writerismo” e arte contemporanea, tappezzate di pagine di controinformazione sociale.
Un itinerario di percorsi visivi “messo a fuoco” nel pensiero e nell’obiettivo (fotografico) del progetto S’Umbra. Parliamo di tradizione (fotografica) che si fa racconto, anche sonoro, resistente e libertario.
G.F.

Gerry Ferrara – Chiediamo, quindi, alla portatrice sana di camera oscura, Luisa Siddi, di dirci dove ci troviamo. E perché.

Luisa Siddi – Sana, di sicuro, no. Siamo in una grotta che dà su un vicolo dal cielo stretto e storto, in un piccolo pezzo di città vecchia che prende la forma dei nostri giochi.

Narraci del senso del progetto a partire dal nome, S’Umbra, all’ombra di qualcosa che svela.

L’origine del nome è segretissima, si intrecciano leggende. S’Umbra nasce tredici anni fa (al numero 17, subito dopo l’Angolo dell’agguato) da Jeremia Johnson, in arte Carlo Cioglia, me e un po’ di compagni solidali che ci hanno aiutato a ristrutturare la grotta.

Pieno boom della fotografia digitale, noi apriamo un laboratorio di fotografia analogica. Che avessimo deciso fosse non commerciale, forse era superfluo. Divenne subito circolo fotografico, scuola di scopone scientifico, a volte casa e un sacco di altre cose. Negli anni ha continuato a cambiare aspetto, tenendo costante una certa predisposizione alla sfiga e alle conseguenti folli soluzioni.

“Ostinati e contrari” nella direzione di utilizzare l’analogico, la camera oscura, gli acidi, il sistema stenopeico che vuol dire anche “attesa”, termine ormai tanto desueto quanto abiurato. La spinta fertile e delirante di “fermare” il tempo e renderlo attuale e meglio comprensibile.

Rapini il treno del tempo, mai oggettivo, rubi un istante, lasci che la luce lo faccia diventare argento, lo vedi apparire in camera oscura, in una bacinella, alla luce rossa, con il rumore dell’acqua che scorre. Mi piace passare un sacco di tempo per rubarne un istante, è l’unico posto dove non mi annoio mai. Questo sul come. Su quale istante rubi e perché, invece, fa parte di te. Nel nostro caso ciò che c’interessa di più in chi fotografa è la rivendicazione di un punto di visione, soprattutto quando è negato.

Come vi sostenete? Come “sviluppate” idee creative e ruolo sociale, come coniugate arte, pensiero e sopravvivenza? Tra le altre cose voi parlate anche di fototerapia.

Con la danza sul pennone: improbabili acrobazie, piroettanti colpi di scena e, come sai bene, ventate di complicità che ci fanno aprire le vele.

Sulla fototerapia, ho smesso di usare il termine. È curioso che tutto ciò che è piacevole sia chiamato terapeutico. La fotografia è un gioco, un utensile, un’arma. Di fatto la fotografia modifica la realtà. È uno strumento affilato che distribuiamo a chi lo chiede, insieme a un pacco di raccomandazioni su responsabilità e consapevolezza.

La scelta del quartiere storico cagliaritano è arrivata in modo casuale o è stato “obbligatoriamente naturale” l’insediamento in questo tipo di territorio e di tessuto sociale che ha un connotato “resistente”. Curiosamente, poi, vi definite “periferia”.

Questa è la parte più assurda. La prima notte di libertà l’ho persa in questo vicolo. Non abitavo qui, ero venuta a farci una scritta e uno scarabocchio. Vent’anni dopo abbiamo aperto S’Umbra e da tre anni ho deciso anche di viverci, con Angelo. Il tutto senza premeditazione. È una sintesi di confine, in cui stridono le parti e si rendono così visibili. Che poi è la parte più interessante.

Il quartiere è un fantasma di ciò che era negli anni ottanta: la popolazione ridotta a un quindicesimo, gran parte degli edifici, di proprietà nobiliare o ecclesiastica, spesso vuoti e diroccati, in attesa di diventare chissà cosa. Vicino alle mura (siamo nella città fortificata) spuntano i bar-barbiere, l’ultimo ha aperto a 20 metri dal dispensario di viveri per i poveri. Tra questi brandelli di gentrificazione ci siamo accomodati, facendoci spazio, all’occorrenza.

Siamo “la periferia in pieno centro”, un insieme di ciò che è considerato marginale, per vari motivi, non integrabile, a costo di disintegrarsi. E, infatti, siamo quasi tutti ex disintegrati/e che, in qualche modo, hanno rimesso insieme i pezzi. Ogni tanto si sente un “avanti tutta”.

Caratteristica del vostro “essere” nel quartiere è la porta sempre aperta che sancisce, senza regolamenti idiotamente condominiali, il confine di un luogo, una terra, il passaggio e la sosta... Da voi c’è sempre l’opportunità e, spesso, un posto a tavola da condividere.

Perché i poveri hanno una socialità più ricca? Perché spesso non abbiamo finestre in casa. Viviamo e lavoriamo in due grotte bellissime, ma pur sempre grotte e, quindi, porta aperta, inviti a entrare chi ti piace, piante e divano nel vicolo, per chi si deve salvare la notte. Chi è un “tu-non-puoi-stare-qui”, da noi può stare, riprendere fiato, se non è razzista o prevaricatore. Se poi è troppo rassegnato (parlo al maschile, perché, sono più i maschi a vivere la strada), può stare finché non è contagioso. Non si tratta di beneficenza, è trovare soluzioni negli stessi casini.

Con croceristi o tecnoumani dotati di fotocamera sempre in funzione, che attraversano la nostra Corte dei Miracoli, siamo decisamente poco amichevoli.

La fotografia è un linguaggio immediato

A proposito di denuncia, siete da sempre un “obiettivo” puntato sulle trasformazioni sociali, e dunque sulle ingiustizie e sulle malefatte, della città, dell’isola, e dei richiami e rimandi d’oltremare.

La fotografia è un linguaggio immediato e potente, quindi campo di scontro tra potere e contropotere. Lo è stato fin dall’inizio. Da quando il brevetto è stato comprato dal governo francese per le foto segnaletiche, da quando le esecuzioni di comunardi e comunarde sono state fatte in base ai riconoscimenti di fotoricordo sulle barricate; da quando Lewis Payne, dopo aver fallito nell’attentato alla vita del segretario di stato del governo Lincoln, in attesa dell’esecuzione, guarda oltre l’obiettivo di un fotografo accreditato e incanta Roland Barthes oltre un secolo dopo.

In un’isola militarizzata e colonizzata in vari modi, non ho voglia di far vedere i pezzi risparmiati per sbaglio e nemmeno di fare il piagnisteo delle sfighe che ci son toccate, rappresentazioni speculari, spesso con identica funzione. Dipende sempre da chi ti paga e per soddisfare chi. E tra narcisismi confusi e committenze dalle idee chiarissime, anche il reportage “di denuncia” diventa una cosa spuntata che non serve a nulla. Oppure riparti dalla forza di un punto di vista unico e consapevole, segui e dai strumenti alle visioni di resistenza.

Sulle pareti outdoor di S’Umbra, tra caleidoscopiche rappresentazioni e forti rivendicazioni come “Immigrati salvateci dagli italiani”, troviamo due frasi emblematiche e fortemente innestate nel vostro agire anarchico: “A bellu puntu” e “Mi seu salvendi”.

Raccontaci di cosa e di chi stiamo parlando e di come riuscite, nonostante tutto, a essere punto di riferimento vitale per il pensiero e il movimento anarchico.

Dai, grazie al cielo, non siamo riferimento per nessuno. Siamo anarchici praticanti e non ne facciamo mistero. Su una parete del vicolo campeggia Jeremia Johnson, gran maestro di camera oscura, fuggiasco, bandito, poeta. Accanto a lui sig. Pino, suo compagno al tavolo delle carte e galantuomo di quartiere.

Carlo Jeremia ha vissuto tempi intensi, ha lasciato una memoria forte e ho un gran pudore a parlarne.

“De André, il suo tema non è organico, mi diceva sempre, al liceo, il mio insegnante d’italiano. Allora ho cercato di essere organico da adulto, nella coerenza di una ribellione che passa anche attraverso le proprie viltà e le proprie contraddizioni. Senza le quali, ecco l’organicità, un uomo non è un uomo, ma un burocrate, o una macchina, o un cinghiale laureato in fisica”.

Il deandreiano pensiero vorrei collegarlo alla vostra esperienza di “Fuoritema”.

Tra una chiacchiera e l’altra in camera oscura, così, da S’umbra, è nato “Fuoritema”. Sei numeri di autoproduzione miracolosa, in cui abbiamo pubblicato le storie che incidono il reale, raccontate in prima persona. Un’esperienza umana fortissima, un periodico di fotogiornalismo in italiano e inglese, introdotto da poche parole, in sardo, che riassumevano tutto il numero. Reportage su pellicola, stampa offset, responsabilità collettiva della redazione. Anche nel fotogiornalismo è fattibile creare dei contesti in cui le storie possono essere raccontate senza essere tradite, piegate o aggiogate. Tutto autofinanziato, non duraturo, ma realizzato.

“Suonno d’oro de stu vico addò va chistu motivo, chissà chi ce l’ha purtato chissà chi se l’è ‘nventato. ‘Nu miracolo c’è stato tutt’o vico s’è scetato, ‘a luntano dint’o scuro se senteva ‘nu tamburo.” Altra citazione, stavolta direttamente dalla tradizione popolare (da “Medina” della NCCP).Sogno e tamburo, festa e lotta nel solco, e nel vicolo, di S’Umbra. Che “album” (curioso che questo termine valga per la fotografia quanto per la musica) state preparando?

I titoli sono tanti: Cerco casa gratis, Un porro al sole, L’armata Brancabbestia, Desbirrification, Senza carte e senza cartine... I contenuti sono quotidiani e impegnativi. Da questo miscuglio di ingiustizie umane e sociali, di urgenza espressiva, escono, dall’ombra di S’umbra, tracce quotidiane con propositi più duraturi. La terza legge dell’avventura dice che ciò che succede dopo, si scopre solo dopo.

Doveste, alla s’umbra dell’ultimo sole dei vicoli di Castello, “sviluppare” un negativo, una storia per “A”, dove puntereste l’obiettivo?
Sul viaggio oltre frontiera della ragione.

intervista di Gerry Ferrara a Luisa Siddi

S’umbra
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Fonte: A